Mi guardo nel dicembre del 2010. Avevo un lavoro che in questo mese mi massacrava, ma mi piaceva, e tanto. Sacrificavo la mia famiglia e gli affetti a tal punto da avere a metà novembre già fatto tutti i regali e arrivare al pranzo di Natale con una stanchezza atroce. Natale e santo Stefano ero solo per Alice, per Andrea, per mia madre che si preoccupava che mangiassi abbastanza 'Che poi il 27 ricominci'. La mattina del 25 facevamo trovare ad Alice le campanelline lasciate da un Babbo Natale distratto, i biscotti mangiucchiati, i regali in bella vista vicino al divano.
Mi guardo nel dicembre del 2000. Avevo 27 anni ed ero incinta di Alice; proprio ieri avrei finito il tempo, ma non ne voleva sapere. Ci sarebbero volute quasi altre due settimane. Una gravidanza bellissima che spazzò via quella lettera di licenziamento che mia madre mi portò all'ospedale. Senza lavoro, ma con una figlia. Una fine e un principio; tutto sommato mi sembrò un bel segnale. Era un cominciare qualcosa di nuovo, di bello. Abitavamo in centro, al terzo piano senza ascensore, senza un balcone. Un anno pieno di senza. Siamo scappati da lì due anni dopo, senza guardarci indietro.
Mi guardo nel dicembre del 1990. Una giovane di belle speranze, non ancora maggiorenne. Fisico asciutto, tonico, da atleta. Gli auguri in palestra, il campionato già avviato, la maglia col numero 7 fermata con un elastico dietro la schiena, i capelli lunghissimi legati da due nastri, sia mai che venissi distratta da un ciuffo o da una maglia che sbuffa fuori dai pantaloncini. Centrata e concentrata. Pochi fronzoli in campo e tacchi e rossetto fuori. Sicura e spavalda come una donna vissuta, ma piena di insicurezze nelle quali mi specchiavo per crescere, per farmi del male. Solo così imparavo.
Mi guardo nel dicembre 1980. Avevo sette anni. L'albero di natale in un angolo del salotto, i fili argentati un po' spelacchiati, messi diligentemente tutti intorno. Mamma che aveva fatto tardi la sera prima per aggiustare le lucine, un tempo si riparava tutto: le scarpe, i vasi rotti, le famiglie. Babbo preparava il presepe, era un campione. Dalle sue mani callose, della carta prendeva vita trasformandosi in montagne, lo specchio a mo' di laghetto, le paperelle un po' mangiucchiate da qualche gatto, il muschio mescolato ai sassolini. C'era anche il fotografo a immortalare il Natale, un amico di famiglia. 'Più vicini' diceva. Io e mio fratello ci guardavamo e non capivamo. A volte fissavo il pavimento sale e pepe, mi divertivo a vederci delle immagini. Poi alzavo lo sguardo e sorridevo.
Mi guardo nel dicembre 2020. Ho 47 anni. L'albero è sempre in un angolo del salotto, ma di una casa che ho scelto e che amo. I fili argentati li ho banditi da un po', al loro posto i fiocchi, con dei nodi stretti stretti. Abbiamo un presepe minimal, statuine che devono ancora essere piazzate. Fare il presepe è un'arte, ho deciso di lasciarla a mio padre. I capelli sono molto più corti, ma sempre fermati con gli elastici perché sono rimasti indisciplinati, ho bisogno di avere la fronte libera per capire e gli occhi sgombri per guardare. Il rossetto non lo metto più, ho troppe guance da baciare; i tacchi invece sì, mi piace sempre essere all'altezza. Di lavori adesso ne ho due, da una sottrazione si è moltiplicato, vedo gente e scrivo storie, di uno sono anche il mio capo, mi tratto bene, sono clemente. Da molto tempo non lasciamo più la campanellina di Babbo Natale, ma alle orecchie di Alice suona ancora.
(ph: Markus Spiske/Unsplash)