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martedì 23 febbraio 2021

SE CHIUDO GLI OCCHI

 Se chiudo gli occhi.

Se chiudo gli occhi sono in Cornovaglia. Scendo una ripida scalinata, ma prima mi fermo ad ammirare il mare increspato dal vento, proprio là, davanti a me. Alla fine dei gradini trovo viuzze strette e case colorate. Qualche negozio vende conchiglie alle poche persone che si sono spinte fino a lì e una vecchina mi sorride cordiale. Il profumo del mare impregna i muri rosa e celesti e il sale incrosta le piccole finestre vestite a festa da alcune tendine.
Se chiudo gli occhi sono in Irlanda. Li ho chiusi davvero quella volta. La potenza delle onde sembrava facesse vibrare la scogliera. Il mare era arrabbiato, impetuoso; cercava di impressionarmi con quella sua violenza sfacciata. Il vento gelido mi arruffava i capelli e mi tappava la bocca, la foschia impediva ai miei occhi di vedere fin dove si spingeva quella rabbia. Il verso di un gabbiano mi impedì di replicare.
Se chiudo gli occhi sono in Olanda. Le scarpe che affondano nell'erba bagnata, le pozzanghere che circondano i mulini a vento, gli unici spettatori della mia scelta sbagliata. Una bellissima ragazza, con lunghi capelli scuri e un maglione bianco a trecce, mi sorride mentre mi invita a proseguire la visita. Le pale dei mulini sono ferme, sembrano guardarmi con scetticismo aspettando una mia mossa. Sogno un paio di zoccoli di legno asciutti e una crema al formaggio. Troverò tutti e due.
Se chiudo gli occhi sono a Parigi. L'aria profuma di burro e di candele. Il mio mento si spinge in alto, verso i tetti blu e una mongolfiera lontana che volteggia sulla Senna. Un battello gremito di turisti ne solca le acque; qualcuno scatta le foto, altri mi salutano. Ricambio sorridendo a uno sconosciuto. Passeggio tra le bancarelle di libri usati, ne sfoglio tanti, non ne compro nessuno. Un uomo con grandi baffi neri seduto su una seggiolina pieghevole mi chiede se voglio farmi ritrarre. Gli sorrido e scuoto la testa. Il battello è ormai lontano.
Se chiudo gli occhi sono a New York. Sono appoggiata al muretto di un ponticello in Central Park. Il mio sguardo va alle barche che passano sotto di me, ci sono delle coppiette, sembrano felici. Gli uomini remano, le donne scattano foto e ridono molto. Sarà un bel ricordo. Alcuni grattacieli si stagliano poco lontano, mi giro per ammirarli e vengo investita dall'odore acre del sudore di un gruppo di runners. Qui corrono, corrono tutti; per lavoro, per sport, per sopravvivere.
Se chiudo gli occhi sono nel Maine. Vengo attratta da un'insegna, promette cose vintage, ricordi. L'odore del legno è così potente da impregnarmi la pelle, i vestiti. Un'alce imbalsamata mi fissa con occhi vitrei da una parete, un orso intagliato e colorate coperte di lana grezza gli fanno compagnia poco distante. Le scene di caccia immortalate in quadri dipinti da sconosciuti sanno di qualcosa di già visto. Una sedia a dondolo è buttata in un angolo, addossata a una parete piena di cianfrusaglie. C'è odore di bosco. E non c'è nessuno.
Se chiudo gli occhi sono nel New England. In mezzo al mare il vento mi sferza le guance e il sole crea un manto di piccole stelle. L'attesa è la compagna di questo viaggio, insieme alla sorpresa. L'acqua da blu scuro diventa verde, poi quasi bianca. Prima che uno sbuffo dichiari la sua presenza, la balena si fa intravedere sotto di me. Avanza lenta, aspetta il momento giusto. Sa che siamo lì per lei. Trattengo il respiro, si fa vedere, l'enorme coda si agita come un saluto. Un tuffo ancora e l'acqua da bianca diventa verde e poi di nuovo blu scuro.
Se chiudo gli occhi torno a viaggiare.




sabato 6 febbraio 2021

IL SIGNOR ELLE

 Noi al lavoro abbiamo i nostri clienti abituali; persone che 'cascasse il mondo' il sabato sono lì, a prendere la loro spesa consueta. E più sono avanti con l'età e più non demordono perché l'abitudine, anche in questo caso, dà stabilità, in qualche modo rassicura.

Il signor Elle (lo chiamerò così) da quando lavoro lì, e cioè sei anni e mezzo, tutti i sabato mattina alle 9.30 si presenta al banco. Pioggia, neve, vento, nebbia, non ha importanza, lui arriva. A volte in bicicletta, a volte a piedi con il suo cagnolino. A volte in compagnia della moglie e dell'anzianissimo suocero, un ometto mite e garbato del quale non conosco la voce. Annuisce e basta e si fa guidare per le vie del mercato a braccetto della figlia.
Il signor Elle è un gran ciarliero, simpatico e cortese. Ogni sabato ci aggiorna sul meteo della settimana e aspetta paziente quando la sua spesa abituale non è pronta. Qualche settimana fa noi non lavoravamo per l'allerta meteo, ma lui si è presentato lo stesso e noi, dispiaciuti di aver mancato, gli abbiamo dato il numero di telefono chiedendogli di telefonarci qualora il tempo fosse brutto brutto. Da allora lo ha fatto solo una volta, ma nonostante la pioggia c'eravamo. Lui si è presentato in bicicletta, con l'ombrello e un cappellino e dopo averci detto 'Tornerà il bel tempo!' è tornato a casa con la spesa legata al manubrio.
Sabato scorso il signor Elle non si è presentato. Il suo ordine lo abbiamo venduto due ore più tardi quando ormai avevamo capito che non sarebbe più venuto. Ci ha fatto strano e abbiamo sperato in un contrattempo.
Stamattina nemmeno. Sono passate le nove e mezza e poi le dieci e poi le dieci e mezza. Troppo tardi per lui.
"È successo qualcosa. Non è da lui."
"Infatti," ribatte la mia capa. "Mi preoccupo."
Ci siamo guardate con lo stesso pensiero. "Abbiamo il suo numero in rubrica. Io lo chiamerei." Ho preso il telefono della ditta, ma la mia capa mi ha fermato. "Faremo la cosa giusta? Non è che si sente violato nella sua privacy? Magari non gradisce. Non so..."
Ho riflettuto. Pensiero logico e sacrosanto. Potrebbe pensare "Guarda queste che per la mancata spesa mi chiamano a casa."
"Potrebbe pensarlo, sì. Ma noi non chiamiamo per la spesa. Non ce ne frega nulla. Noi siamo preoccupate."
"Che si fa allora?"
"Dammi qua. Lo chiamo io."
Ho fatto squillare il telefono. Al quinto squillo ha risposto.
"Signor Elle, la chiamo dal mercato!"
Momento di incertezza e poi "Sì, buongiorno!"
"Senta... non la vediamo da due settimane, non è per la spesa, non ce ne frega nulla, ma ci chiedevamo se va tutto bene..."
Breve pausa. "In effetti no..."
"Ecco, come immaginavamo..."
E lì si è sfogato. Mi ha raccontato che hanno il Covid, tutti e tre. Fortunatamente stanno benino, curati a casa molto bene. Anche il nonno ultranovantenne sta benino, tengono botta. L'ho sentito piuttosto sereno, anche se mi ha confidato di essere in pensiero per un caro amico in terapia intensiva. Ha aggiunto di essere dispiaciuto anche per non venire al mercato con il canino o la sua amata bicicletta.
"Mi scuserà, ma non è da lei mancare, eravamo in pensiero."
"Non si preoccupi" mi ha detto, "mi ha fatto tanto piacere sentirla, anzi grazie."
"Io spero di rivederla presto. Riguardatevi. Quando tornerà noi saremo sempre qui e la sua spesa sarà sempre pronta."
"Come sempre."
"Sì, come sempre."
Mi ha ringraziato ancora e ci siamo salutati con la promessa di tenerci informate.
Forse ho sbagliato, forse no. Ma tra la ragione e il sentimento, il secondo ha sempre vinto a mani basse.

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venerdì 27 gennaio 2017

Che ne sanno

(Foto: tablettv.it)

Laura è una donna piacente. Non giovanissima ma la cura che ha di sé, le cancella qualche anno. Ha sempre i capelli a posto, ma poco trucco, anzi quasi niente. Lascia scoperte le piccole rughe e qualche imperfezione.
Laura è alta e ha un viso comune, ma è il suo corpo che attira l'attenzione: è tonico, forse merito della ginnastica fatta anni prima. Ed è lì che lei gioca. Ha il viso di una cinquantenne con il corpo di una trentenne.
Laura ama vestirsi bene, portare le gonne sopra il ginocchio, osare con le calze e i tacchi alti. Se lo può permettere, li sa indossare, ha un bel portamento, come direbbe mia madre. Ma è una cinquantenne che osa con le calze audaci e con i tacchi. Le persone buone e in pace con loro stesse vedono in lei una bella donna che si cura. Altre persone la vedono diversamente. La vedono troppo sfrontata, spudorata, anche un po' volgare. Le frasi come 'non ha più vent'anni ma dove crede di andare' nemmeno si contano più, come se averne cinquanta fosse già una condanna a morte.
E Laura, alla morte, è stata quasi condannata prima di riuscire a godersela questa vita. Ci sono giorni i cui, alla vista delle ultime analisi e delle terapie che deve affrontare, decide di farsi bella. Indossa una gonna attillata, le calze con la riga, i tacchi più alti ed esce. Decide di regalarsi una colazione al bar e compiacersi se un uomo le paga la colazione. Decide di sorridere a chi le fa i complimenti e ridere di gusto per una battuta un po' osé. Decide di lottare e non buttarsi giù prendendosi cura di se stessa, facendo qualche spesuccia pazza, andando dal parrucchiere sempre più spesso e regalandosi qualche dettaglio lezioso.
Laura, puntualmente, riceve occhiate da altre donne che, seppur riconoscendone l'avvenenza, la ammoniscono perché è troppo appariscente, per la gonna troppo corta, per i tacchi troppo alti.
Un ammonimento che sa di invidia, per quel suo modo di fare sempre cortese, per il suo sorriso, per la sua educazione, per quel corpo esaltato da abiti che le sembrano cuciti addosso.
Sapessero la verità, cara Laura. Sapessero quante volte hai risposto al mio 'Come va?' con un 'Per ora va.' Sapessero quante calze o quante scarpe servono per allontanare dalla mente quello che devi affrontare. Quanti rossetti e messe in piega servono per cancellare la paura. Ma loro non lo sanno. E lasciamole parlare, lasciamo che ti guardino andar via fasciata nel tuo nuovo vestitino, l'ultima coccola prima dell'intervento, fantasticando su un ipotetico amante che ti aspetta. Lasciamo che vivano nella cattiveria, nell'ignoranza e nel pregiudizio.
Lasciamo che vivano, come solo sanno fare: da inconsapevoli.
Che ne sanno loro di come si lotta.


mercoledì 11 gennaio 2017

State lontani




State lontani da chi vi affossa, da chi, davanti a un vostro sogno o progetto, scuote la testa con un "Ma lascia perdere!" o "Non ne vale la pena." Se ci credete  veramente, ne vale sempre la pena. E voi siete lì per dimostrarlo.

State lontani da chi gode dei vostri insuccessi. Non vi avvilite però, godrebbero ancora di più.
Trasformate la vostra rabbia in qualcosa di costruttivo, di più forte e riprovateci. Non è facile, ci vuole allenamento, ma alla fine ci si riesce. Garantito.

State lontani dai pessimisti, da chi vede sempre tutto nero, chi non riesce a scorgere niente di positivo in questa vita. Se non vi allontanate, piano piano vi trascineranno nel buio con loro. State lontani non solo da chi vede il bicchiere mezzo vuoto ma da quelli che non vedono manco il bicchiere.

State lontani da chi tira fuori il peggio di voi. Sono persone negative, che vi intossicano piano piano come un veleno insapore e inodore, trasformandovi senza neanche rendervene conto in persone sgradevoli.

State lontani da chi non sa ridere. Da chi non capisce l'ironia, da chi non capisce le battute o meglio: da chi le capisce ma non ride per non darvi soddisfazione. Quelli in effetti sono i peggiori.

State lontani da chi vi critica, sempre e comunque. Da chi vi fa sentire un inetto, insignificante. Nel mondo ci sarà sempre qualcuno migliore di voi, questo è certo,  ma non per questo dovete sentirvi inferiori.

State (ancora più) lontani da chi vi ha lasciato andare. Non affannatevi, non rincorrete chi non vi vuole. Concentratevi piuttosto da chi fa di tutto pur di incontravi, anche solo per un caffè al volo.

State lontani da chi, non sapendo dove colpirvi, lo fa su un difetto fisico. O meglio: su quello che loro pensano sia un vostro difetto fisico. Magari voi, nel tempo, ne avete fatto un punto di forza.

State lontani da chi non vi capisce, da chi vi fraintende sempre, da chi non viaggia sulla vostra lunghezza d'onda. La vita è troppo breve per spiegare alcuni concetti a chi non è predisposto all'ascolto.

State lontani da chi non ha empatia, carità cristiana, da chi è severo con se stesso e con gli altri. Da chi, prima di agire, pensa sempre a un tornaconto. Da chi non dà, ma pretende. Da chi critica ma non muove un dito.

State lontani da chi polemizza su tutto. Dai bastian contrari. Da chi sale in cattedra e sentenzia senza conoscere. Da  chi non sa motivare una scelta, da chi non sa argomentare una decisione presa, da chi crede a qualsiasi cosa gli venga detta o messa sotto gli occhi, da chi non si informa, da chi segue la massa a occhi chiusi, da chi è sprovvisto di spina dorsale.

State lontani dagli invidiosi. Dagli arroganti. Dai presuntuosi. Da subito.

Invece:

Circondatevi di persone che, davanti a un vostro sogno o progetto, vi incitano con un "Provaci! Io sono con te." o "Non so se sia una buona idea, ma ti appoggio. Sono qui."

Circondatevi di persone che esultano per un vostro successo, di persone che vi stanno vicine e sono realmente felici per ciò che di bello vi accade. Perché è facile stare vicino a una persona in un momento critico ma è ancora più difficile farlo con bontà quando questa raggiunge il successo o un sogno.

Circondatevi di ottimisti, di chi riesce a vedere uno spiraglio di luce nel buio più totale. Circondatevi di speranzosi, di persone che sanno ridere nonostante tutto, che sanno cogliere il bello della vita, che hanno fatto della gratitudine quasi uno stile di vita.

Circondatevi di persone che vi fanno stare bene, che vi fanno dimenticare anche solo per un'ora tutti i casini che avete. Circondatevi di chi tira fuori il meglio di voi stessi, di persone che vi fanno spostare i paletti che vi siete imposti, facendovi diventare persone migliori. E tenetele strette queste belle anime.

Circondatevi di persone che hanno fatto del loro sorriso l'arma con cui abbattere tutti i mali del mondo.

Circondatevi di persone che vi fanno sentire importante. Di persone che vogliono ascoltare il vostro parere, la vostra voce, cosa avete da dire a proposito di alcune questioni. Circondatevi di persone positive.

Circondatevi di chi vi tiene stretto, non solo in un abbraccio, ma nella sua vita.

Circondatevi di persone che vi dicano "Sei bellissima," anche quando l'umore è sottoterra e l'aspetto pure. Di chi riesce a farvi un complimento per tirarvi su,  chi contribuisce con mattoncino su mattoncino, a costruire la vostra autostima.

Circondatevi di persone che  vi capiscono al volo, di quelle che 'basta uno sguardo', di persone che viaggiano sul vostro stesso binario. Sarà un viaggio indimenticabile.

Circondatevi di persone sensibili, che si commuovono, che non provano vergogna a piangere in pubblico. Circondatevi di chi allunga una mano verso gli altri, di chi fa volontariato. Di persone che danno tanto senza pretendere nulla. Di chi è generoso. Di chi ama, ma col cuore.

Circondatevi di gioia e di calore. E non abbiate la paura di tagliare ponti, rapporti, amicizia o allontanare ciò che vi fa soffrire. È solo il primo passo per stare bene, con noi stessi e con gli altri per far sì di godere al meglio questa grande giostra che chiamano vita.



(foto da: psicoadvisor.com)

lunedì 19 dicembre 2016

Il Manicomio di Volterra - Quello che ci ha lasciato -


È una fredda mattina di Dicembre e Volterra è coperta da una brina che scricchiola sotto i piedi. Quando arriviamo al cancello di accesso dell'ex ospedale psichiatrico San Girolamo e ci vengono date le indicazioni per il percorso, realizziamo che ci siamo perse la prima parte della guida. "Poco male" ci viene detto, "la recupererete strada facendo." In realtà la prima parte non la recupereremo mai in maniera convenzionale, facciamo personalmente un altro percorso, forse più umano, più intimo.
Quando arriviamo noi (io e Maria Luisa) non c'è ancora nessuno. Accettiamo il suggerimento di chi ci ha accolto di cominciare ad avviarci "Se volete fare qualche foto," ci dicono.
Ci inerpichiamo infreddolite e il primo padiglione che incrociamo è lo Charcot (padiglione civile o di recupero)
L'edificio, come tutti gli altri del resto, è in forte stato di abbandono. Per accedere all'ingresso o anche solo affacciarsi alle enormi finestre, dobbiamo farci spazio tra la fitta vegetazione che si è impossessata, prepotente, di questi luoghi.




Sembra quasi di violare qualcosa di sacro, infatti ci ritroviamo a parlare piano piano, sussurrando, in una forma di rispetto che va al di là di dove ci troviamo. Una pianta ricorrente che troviamo (mi sorprendo di come la mia mente abbia registrato questo dettaglio) e che avvinghia letteralmente porte e finestre, è l'edera. Si attorciglia, mangia e stringe ogni infisso da mesi, anni, arrampicandosi ed espandendosi su muri scrostati e vetri rotti. L'edera, scoprirò poi in seguito, ha bisogno di ombra e freddo per crescere bene e produrre le sue bacche, ed è inutile sottolineare quanto qui, ora, trovi il suo ambiente ideale. 


 

Lo Charcot, tra i vari padiglioni, era quello che veniva considerato di pre-inserimento. Qui si cercava un recupero degli ospiti per poter restituire loro un ritorno a casa o alla vita 'normale'. All'interno del manicomio infatti erano presenti una falegnameria, una panificio, una lavanderia e altre piccole botteghe volute fortemente dall'allora direttore Luigi Scabia, per sviluppare il concetto di piccolo villaggio dove l'ospite potesse sentirsi non recluso ma libero di muoversi e/o lavorare.
Questo quadretto un po' rassicurante dove immaginiamo i pazienti affaccendati nelle varie mansioni, fa a cazzotti con quello che vediamo. O intuiamo.



Come ad esempio gli interruttori della luce posti a due metri di altezza per evitare che venissero accesi e spenti di continuo da chi si strusciava intorno al perimetro delle stanze per ore.
Come ad esempio le grandi finestre dalle quali passa, tutt'ora, una luce forte, violenta, che inonda gli ambienti. Illumina, come fossero i protagonisti,  i muri graffiati, disegnati o consumati da quel percorso perpetuo fatto di spalle, tempie e capelli



Finestre grandi che suggeriscono aria, luce, apertura, ma interamente sprangate, chiuse e inaccessibili per ricordarci la libertà negata.










Il nostro percorso prosegue verso il padiglione Ferri, quello giudiziario. Abbiamo avuto accesso all'interno tramite il giardino dove, col bel tempo, i pazienti venivano lasciati liberi di circolare, giocare a bocce, passeggiare. Quando invece il tempo era ostile, per 'tenerli buoni', venivano esortati a farsi un giro intorno a un tavolo. A giornate. Dieci, cento, mille giri intorno a un tavolo rettangolare in uno stanzone, uno dietro l'altro. Il movimento continuo, sempre uguale, li teneva impegnati e calmi, dicono.






Ma il padiglione Ferri è anche quello più famoso perché custodisce l'opera di Oreste Fernando Nannetti (NOF).
Nannetti, dopo un inizio di vita che oggi verrebbe descritto solo un po' travagliato, fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico romano e poi trasferito a Volterra, solo per aver mandato a quel paese un carabiniere. Quello che emergerà, proprio da questo viaggio di anime, è che a quei tempi venivano rinchiusi in manicomio persone non solo affette effettivamente da patologie psichiatriche gravi, ma anche chi si dimostrava leggermente fuori dagli schemi considerati 'normali'; o chi, purtroppo, era semplicemente vittima  di disturbi dell'umore, depressione o attacchi di panico. Questo bastava per farti varcare la soglia del manicomio, con tutte le conseguenze del caso. Come bastava avere un attacco epilettico o un episodio di schizofrenia. Non venivi valutato e curato per quel tipo di disturbo, venivi 'semplicemente' etichettato come matto, rinchiuso  al manicomio e sedato e/o curato con metodi molto discutibili. Provate a pensare alla depressione post partum. Provate a immaginare una depressione magari data dalla povertà di quel periodo o da un grave lutto. Immaginate una persona costretta, nei giorni di pioggia, a camminare per ore intorno a un tavolo o guardare per mesi la stessa crepa nel muro circondato da chi, come lei, ha lo sguardo vacuo, triste o perso.
Quello che mi viene da pensare è che in quel periodo storico si entrava da 'sani' al manicomio e pazzi ci si diventava dopo, grazie ai metodi, all'ignoranza, e alla gestione di tutto quello che era intorno a noi.
Oreste Fernando ne è un esempio. Oreste era romano, e come la maggior parte dei romani amava la sua Roma. Quando fu trasferito all'ospedale psichiatrico di Volterra, lui la prese male. Era un affronto, un'offesa troppo grossa strapparlo dalla sua amata città. Quindi si rinchiuse in un ostinato mutismo. Smise di parlare ma aveva una mente vivida, acuta e trovò  un metodo per dialogare col mondo, quello dentro, ma soprattutto quello fuori. Oreste, per 'dieci anni', sui muri dei padiglioni ha disegnato la sua vita, i suoi pensieri, le sue paure, le sue gioie, forse. Lo faceva con la fibbia del giubbino della divisa che indossava.
Ogni giorno, per dieci anni, Oreste raccontava  in una sorta di quotidiano, quello che gli passava per la testa. Tuttavia nessuno riusciva a decifrare quei simboli, quelle scritte così strane, fino a che in lui non si imbatté  Aldo, un infermiere che aveva fatto la scuola d'arte a Roma, guarda caso in quel breve  periodo in cui l'aveva frequentata Oreste.
Aldo, andando umanamente al di là della regola 'Se facendo così sta buono, lasciamolo fare', volle capire il significato di quelle scritte e interpretarle. Oreste si trovò quindi di fronte non più un infermiere ma un uomo capace di comprendere, capire, interpretare quei simboli e i suoi messaggi. Tra i due quindi iniziò un legame che andava oltre il rapporto paziente-infermiere. Si tramutò ben presto in un'amicizia complice a tal punto che Oreste iniziò a parlare di nuovo, ma solo con lui. Aveva trovato in Aldo un amico, una persona capace di ascoltarlo e che comprendeva questa grande voglia di comunicare.
Aldo trascrisse i graffiti di Oreste (lavoro lungo e certosino perché Oreste scrisse sia sul padiglione Ferri sia sullo Charcot - 180 metri per due di altezza l'uno, e 100 metri e alto 20 cm l'altro) e quando ad Oreste gli venne riconosciuto un compenso per la trasformazione dei suoi graffiti nel libro N.O.F. 4 Il libro della vita, lui rifiutò per motivi legati alla burocrazia.


 Oreste, in quegli anni, scrive tanto, tantissimo e non si ferma nemmeno quando incontra un ostacolo; infatti scrive intorno alle teste dei ricoverati seduti su una panchina. Fa cornici intorno a persone ferme, inermi, quasi in stato catatonico. Loro, assenti agli altri e a se stessi, non si spostano e lui li circumnaviga. Ecco spiegate quelle chiazze di intonaco pulito appena sopra la spalliera della panchina. Oreste, che in quegli anni si definì Colonnello Astrale,  morirà a Volterra nel 1994 non senza aver lasciato un segno fatto di citazioni, una fra tutte  "Come una farfalla libera canta tutto il mondo è mio... e tutto fa sognare."




 
 

La visita dentro al Ferri prosegue con segni di devastazione ovunque. Sia edile che umana. Difficile non immaginare come venissero passate qua dentro le giornate.



Troviamo spesso sedie, panchetti, piccole panchine come se non ci fosse da fare niente, solo aspettare.

Camminiamo tra calcinacci, porte divelte, vetri rotti e squarci nel soffitto dal quale filtra un sole quasi insolente. Nonostante l'evidente devastazione e incuria, tutto è tangibile, come se queste pareti ci parlassero e trasudassero ancora sofferenza fatta di elettroshock, camicie di forza, solitudine e una dignità calpestata, fatta a pezzi. Se venivi rinchiuso qui, venivi spogliato non solo dai tuoi abiti ma anche da te stesso. Ti veniva tolta la dignità con la stessa facilità con cui ti venivano tolti i tuoi occhiali, le tue scarpe, le tue foto nel portafogli. Venivi spogliato letteralmente da qualunque cosa che facesse di te una persona. Venivi gestito come un caso, forse con un numero, un appellativo, un soprannome o semplicemente come il matto X.



Venivi lasciato girovagare senza meta e senza stimoli nei corridoi, nelle stanze intorno ai tavoli, nei viali alberati intorno a quello che sembrava a tutti gli effetti un carcere. I più mansueti giocavano a carte a modo loro, i più agitati venivano calmati con metodi a volte atroci, sotto lo sguardo impotente degli infermieri. Quest'ultimi, scoprirò alla fine, in alcuni casi sono stati realmente minati da così tanta sofferenza. Qualcuno si ribellava, qualcun'altro  non eseguiva gli ordini alla lettera, qualcun'altro ancora si affezionava veramente. Infine c'è stato chi ha tramandato le storie di queste persone perché non si perdessero.


Al manicomio di Volterra si testavano anche cure sperimentali come quella fatta al padiglione Maragliano, dove venivano ricoverati i malati di TBC.



Si avvalsero della climatoterapia e il colonnato dell'edificio (rivolto verso il mare)  veniva usato per collocare i pazienti in carrozzina per fargli usufruire dell'aria di mare come terapia curativa. Dopo qualche mese fu chiaro che tutto ciò non serviva a niente e fu abbandonata questa pratica.



L'accesso a questo padiglione è quello più difficile. La vegetazione è fitta, quasi a sbarrare la strada ai visitatori e gli interni (salvo qualche eccezione) sono molto danneggiati.



All'interno si trovano pezzi di macchinari, libri, oggetti personali, letti e pitali.
Non pubblico le foto dei bagni e delle vasche da bagno solo per decenza ma potete ben immaginare.
 

Nel corso della giornata ci vengono inoltre raccontate altre storie, come quella di un ricoverato che, nella figlia di un infermiere, ci rivedeva il proprio figlio strappatogli e per tanti, tantissimi anni, nel giorno della Befana le regalava una calzetta di dolci.
E poi un'altra: una signora piccola, minuta, che vestiva sempre di merletti e col colletto inamidato, fatta rinchiudere in manicomio dalla famiglia perché non voleva sottostare a un matrimonio combinato. Ripeteva "Piuttosto mi faccio suora!" e fu fatta passare per pazza e costretta a vivere in quello che vedete.
Poi altre storie di famiglie che ti buttavano qui per non darti la tua fetta di eredità, perché ti eri ribellata al marito, perché magari una notte non eri rientrata a casa, perché avevi offeso un pubblico ufficiale, perché avevi tentato il suicidio, perché eri depresso, o triste, o solo.

Il problema è che qui, solo, ci rimanevi comunque.



Ringrazio la volontaria che ha raccontato a noi due questi aneddoti in una sala silenziosa  della biblioteca, in maniera del tutto confidenziale ed empatica.
E Andrea Trafeli che, durante la visita guidata, ci ha fatto conoscere con umanità e commozione Oreste Nannetti e i suoi messaggi al mondo.

                                                                         ***
Prima di andarcene abbiamo scoperto che la signora è la bambina alla quale veniva regalata puntualmente la calza di Befana e Andrea è il figlio di Aldo, l'infermiere personale di Oreste.




lunedì 14 novembre 2016

Questo fa di me



Dal 1 Novembre sto partecipando a un progetto indetto da Silvia che si chiama Remember November, una sorta di viaggio fatto di foto e riflessioni su noi stessi e quello che ci circonda.
Ogni giorno un compito diverso. Ieri, ad esempio, dovevamo chiedere sui social e a chi ci circonda "Come mi vedi?" Domanda semplice ma non scontata e mi sono domandata quanto arriva di noi stessi sui social, quanto effettivamente facciamo passare, quanto i blog, le ricette, le poesie, i racconti, gli status raccontino veramente di noi. Quanto ci sia di vero. Ho girato questa domanda sul mio profilo e ovviamente ci sono stati solo commenti che mi hanno scaldato il cuore, tutti i miei pregi, le cose in cui credo, i miei amori, le mie passioni, quello che realmente sento di essere, senza filtri.
Io sono quella Simona lì, quella che traspare da queste pagine e dai miei profili social. Ma c'è anche altro, cose di cui non vado fiera, i difetti che mi fanno bellamente compagnia e che tutti, in un mondo dove l'apparire al meglio è sovrano, cerchiamo di tenere nascosti o quanto meno far passare molto filtrati. Ieri sera, leggendo quello che mi scrivevano, da una parte mi faceva un piacere immenso, dall'altra mi rendevo conto che forse mi avevano idealizzato un po'. Mi sono sentita un po' a disagio (anche  per la domanda autoreferenziale alla 'Parlami di ME') e ho deciso di fare un' autoanalisi e mettere nero su bianco  i miei difetti per cercare, anche, di lavorarci un po'.

Sono una donna molto sensibile, spesso ormonale, e questo fa di me una persona tendenzialmente permalosa nonostante faccia dell'autoironia il mio cavallo di battaglia. Mi si offende con poco ma mi si gratifica con nulla.

Sono poco incline al perdono e questo fa di me una cattiva persona perché sostengo che il perdono sia la più alta forma di amore e intelligenza che un essere umano possa dimostrare.

Sono schietta e diretta. Troppo schietta e troppo diretta. E questo in alcuni contesti mi fa apparire arrogante, antipatica e aggressiva. Dovrei imparare la difficile arte del saper tacere e possibilmente riflettere.

Sono goffa, maldestra, spesso pure sgraziata nel modo di vestire, di pormi, di parlare. Non ho l'intelligenza o l'astuzia di cambiare toni o registro a seconda di chi ho davanti. Ci potrebbe essere il Papa, un ragazzino, un uomo d'affari, una barbona o una suora e il mio registro non cambierebbe di una virgola. Il fatto grave è che tutto questo non è studiato, è solo molto infantile, e forse a 43 anni suonati dovrei imparare a comportarmi come si deve.

Dico un sacco di parolacce. La scusa che sono toscana non regge più, non tutti i toscani dicono parolacce anche se è un intercalare piuttosto comune. Uso spesso le parolacce per dare più vigore a quello che dico, niente rafforza il concetto più di un 'Cazzo!' esclamato al momento giusto.

Non sono una persona che porta rancore, perché per farlo servono molte energie e preferisco incanalarle in qualcosa di costruttivo. Faccio di peggio: io ti cancello. Dalla mia vista, dalla mia strada, dalla mia vita. Se dico basta, per me non esisti più. E, come il più puntiglioso dei bambini piccoli, non torno più indietro. 

Non sono per l'accanimento sentimentale. Se non mi vuoi io non ti rincorro, non mi piego, piuttosto mi spezzo e questo fa di me una persona con cui, a volte, non si può ragionare. Se mi fai correre, se mi dai solo briciole, io non ho la pazienza e la voglia di aspettare o di starti dietro.Sono inquieta e molto incline al 'tutto e subito' e 'O bianco o nero'. Le vie di mezzo non fanno per me e questo mio assurdo comportamento mi ha precluso delle occasioni d'oro. L'attesa mi logora. L'aspettare mi sfinisce. 

Odio i paletti, le costrizioni di ogni genere e potete ben capire in ambito lavorativo (la scrittura) cosa questo comporta. Per certi versi non è facile lavorare con me; pretendo, porto avanti le mie idee, non scendo a compromessi, a certi giochetti, lotto per quello che voglio, non mi accontento, voglio il meglio e quando non lo posso ottenere allora cambio musica. Questa mia mancanza di elasticità, oltre a farmi perdere belle occasioni (soprattutto agli occhi degli altri) si traduce in un simpatico "Ricominciare da capo," e infiniti "Ho un carattere di merda - Ho un carattere di merda - Ho un carattere di merda..." scritti alla lavagna.

Mi innamoro facilmente delle persone. E altrettanto facilmente mi disinnamoro. Basta poco così perché tu mi vada a genio ma una battuta o un comportamento fuori posto mi portano velocemente dall'altra parte. Una persona normale darebbe comunque un'altra possibilità, secondo cosa dici o fai io non ti faccio finire nemmeno la prima. Ed è faticoso non essere così malleabile, così accomodante a volte, così buona

Sono una persona che non riesce a fare buon viso a cattivo gioco. Se mi stai sul cazzo si vede e questo denota un autocontrollo che fa acqua da tutte le parti. Alla mia età si dovrebbe quantomeno avere il filtro dell'esperienza e del buon senso, ma a quanto pare ne sono sprovvista e non ne vado certamente fiera. Anzi.

Sono impulsiva (nel senso peggiore del termine) agisco di istinto e questo spesso mi mette nei casini e a volte mi porta più svantaggi che vantaggi. A volte sono anche puntigliosa e cagacazzi. Già che siamo qui diciamo le cose come stanno.

Sono una che sui social cancella amicizie e oscura le persone. Senza avvertire. Perché nel mio modo contorto di pensare che sfiora l'onnipotenza, sei TU che devi arrivare a capire del PERCHE' ti ho cancellato. Non sono ancora arrivata a bannare ma non è detto che mi precluda questa possibilità. Questo fa di me una persona poco tollerante e poco incline alla comprensione e al confronto se quello che dici o posti mi fa incazzare e non riflettere, indignare e non ragionare. A volte faccio una fatica immane a mettermi dall'altra parte. E voglio imparare a farlo.

Sto sulle palle a un po' di gente, quelle che probabilmente hanno avuto a che fare con la mia parte peggiore, gente con cui mi sono scontrata, gente molto distante da me o forse molto simile, chissà.

Non conosco l'invidia ma posso essere vendicativa, non tanto a gesti quanto a parole. Non importa se sia passato un giorno o dieci anni, io ho una buonissima memoria e stai pur certo che se una cosa mi ha ferito, prima o poi ti tocca la peperonata: quando meno te lo aspetti ti si ripresenta. E non è sciocco quando capita dopo anni? Non dovrei avere la maturità di lasciarmi scivolare alcune cose di dosso?
Mi piacerebbe essere più zen, più sul 'Ma lascia perdere!' e invece, spesso, non lascio perdere manco per il cazzo. E per giustificare questo mio atteggiamento discutibile mi dico che se tutti avessero ragionato sul 'lascia perdere' le cose nel mondo o nella propria vita non cambierebbero mai di una virgola. A volte c'è bisogno di una presa di posizione. Spesso la mia è sbagliatissima ma me ne assumo, consapevolmente, la responsabilità.

Non finisco questo post dicendo "Questa sono io, prendere o lasciare", perché è una frase che odio e che presuppone arroganza, presunzione e una presa di posizione molto infantile (e mi sembra che di difetti su cui lavorare io ne abbia già abbastanza). Quindi no, non lo dirò. Anzi, vi spingo a fare il contrario e quindi vi dico che questa sono io. Non quella di ieri, non quella di domani perché nel frattempo ho rivisto o potrei rivedere certe cose, certe posizioni, certi atteggiamenti, certi pensieri. Si cambia per gli altri, ma soprattutto per se stessi e spesso, spessissimo, in meglio. E in mezzo a tanti pregi e altrettanti difetti ci sono io che da quando ho preso coscienza di me, mi barcameno per cercare di far sì che i primi vincano sui secondi. Su molte cose ci sono riuscita, su altre ci sto lavorando, su altre ancora ho fallito miseramente e ne prendo coraggiosamente atto. Non mi preoccupo di piacere a tutti, mi preoccupa il fatto che un giorno potrei smettere di farmi domande e crogiolarmi nei miei difetti esaltandoli come pregi anche se il mondo grida il contrario. 
Nel frattempo vivo circondata da chi ha deciso di venire accecato dalla luce delle mie virtù e dal buio profondo delle mie mancanze.




giovedì 5 maggio 2016

Sono caduta dalle scale a sette anni


                      Foto: http://www.ilmulinonlus.net/






 Sono al parco, mia figlia è piccola e come suo solito non corre, non starnazza come dovrebbe fare alla sua età, ma se ne sta a questo tavolo di legno a fare un piccolo puzzle portato da casa.
Accanto a noi ci sono le solite mamme con le solite bambine, alcune delle quali cercano di coinvolgerla in altri giochi, ma lei probabilmente aspetta quella un po' timida come lei, quella che viene sempre dopo che sua madre ha ritirato i gemelli dall'asilo. Infatti eccola: cammina piano oggi, e si porta dietro a fatica lo zaino della scuola. Io e sua madre ci salutiamo con una certa confidenza, ormai sono giorni, mesi, che parliamo del più e del meno e ci scambiamo pure qualche consiglio. Si mettono al nostro tavolo mentre, poco più in là, si accomodano altre mamme, altri bambini. Sua figlia oggi è particolarmente silenziosa e nasconde il viso sotto i suoi lunghi capelli biondi. Penso che sia solo stanca ma solo quando un refolo di vento le scopre la fronte, scorgo un fregio sulla tempia che le prende parte dell'occhio. Una macchia scura come un ombretto sbafato.
Oh povera! Che hai fatto?” Mi scappa a voce alta. Troppo alta. Qualche mamma si gira, per poi tornare a guardare il cellulare o il proprio figlio sullo scivolo.
Lei prima guarda la madre con sottomissione poi mormora “Sono caduta dalle scale.”
Sua madre la fissa e annuisce appena, come per dirle “Brava.”
Be', capita. Anche io sono caduta una volta dalle scale. Caviglia rotta, quindi alla fine sei stata più brava tu a cavartela con quel graffietto.” Cerco di fare dell'ironia, ma la faccia seria della bimba mi blocca da formulare qualsiasi altra battuta. La madre, dal canto suo, sembra lievemente in imbarazzo, e non so cosa deve aver visto nei miei occhi, forse un'immensa incredulità perché dopo alcuni istanti si sporge sul tavolo e mi confida: “In realtà l'ho picchiata. Sono uscita fuori di testa. Quei due mi fanno impazzire e alla fine ci rimette lei. Le ho dato un manrovescio e l'ho presa in pieno con un anello. Mi sono sentita morire. E ho pianto con lei. Guarda come l'ho ridotta, da rovinarle il viso.”
La bimba è ammutolita e per poco non si accartoccia su se stessa.
È meglio dire a tutti che sei caduta dalle scale, vero amore?” Le sussurra dolcemente accarezzandole la testa.
La bimba annuisce sommessamente e le rivolge un timido sorriso.
Io sono impietrita.
Non tanto per il gesto della madre, che per quanto orrendo e non condivisibile, mi lascia solo l'amarezza addosso.
Ma per il comportamento della bambina che, davanti a una violenza simile, trova – come è giusto che sia alla sua età – normale mentire. Mi viene da pensare che ubbidisce alla madre come ubbidirà in futuro a un marito, un compagno, un uomo al quale vuole bene, qualora usasse su di lei una violenza inaudita, una violenza scaturita dal nulla.
Quel 'sono caduta dalle scale' detto a 7 anni in un parco durante un pomeriggio di primavera è solo la punta dell'iceberg di una vita fatta di sottomissione e fragilità. Magari troverà normale, da adulta, mentire su violenze e su abusi subiti, per accondiscendere gli altri e tutelare se stessa, perché l'ha sempre fatto, perché è giusto fare così, perché le hanno insegnato quello.
Dopo quel pomeriggio non le ho più riviste se non sporadicamente per un saluto veloce e la bambina ha ripreso a sorridere come una volta.
La madre invece, dopo quel giorno, bensì non avessi dato voce a nessun giudizio sulla faccenda, cerca di evitarmi e mi saluta a mezza bocca.
Forse non si rende conto che il fatto che abbia detto a me la verità è meno grave, meno vergognoso, di aver obbligato la sua bambina a dirmi e a dirsi una bugia.

Una bugia che spero, nel suo futuro di donna, non debba mai essere costretta a ripetere.







martedì 15 marzo 2016

Come prendersi cura di un blog


                                                                   (foto: http://www.goblins.net/)




Circa una decina di giorni fa è uscito un articolo sul settimanale Intimità che trattava il tema del self publishing e sono stata chiamata in causa per dare la  mia testimonianza in fatto di autopubblicazione.
E fin qui niente di strano.
La giornalista poi, nella parte riguardante la mia (diciamo) biografia, ha scritto "Si prende cura del suo blog A Casa di Simo..." perché effettivamente le avevo detto che ne avevo uno.
E qui invece qualcosa di strano c'è.
L'ultimo post risale al 4 Febbraio, porca di quella maremma peppa pig!
Se questo vuol dire 'Prendersi cura di qualcosa o di qualcuno' diciamo che con me morite anche se all'inizio avete un semplice raffreddore.
Sì, è molto che non scrivo.
No, non l'ho abbandonato.
Sì, ho avuto un periodo un po' particolare.
No, non così particolare da non farmi scrivere minchiate o parole sparse sul mio profilo FB.
Sì, dovrei curarlo di più.
No, se non ho niente da scrivere, semplicemente non scrivo.
Prima di punirmi col cilicio  o ficcare la testa nel water insieme all'anatra wc per questa mia trascuratezza, mi sono fatta un giro dei blog che seguivo o quelli comunque più seguiti e mi son resa conto che non sono solo io che languo.
Blog prima commentatissimi (si parla di una media di 200 commenti a post) ora a malapena arrivano a 20.
Blogger che prima postavano tre volte a settimana sono scesi a tre volte al mese.
Quindi mi sono rilassata un attimo (solo un attimino) e mi son detta "Eh be'..." che è un pensiero colto e profondo alla "Esticazzi" e ho cercato di capire  cosa è cambiato:

I blog ci sono sempre, e sono belli. E magari hanno anche più visite. Forse i contenuti si ripetono un po', perché trovare ogni volta una chiave di lettura diversa non è facile. (Io per prima esclamo un 'Troppo ganzo!Oggi ci faccio un post!" per poi scoprire che ne avevo scritto uno simile nel 2010)
Sì, la mia potrebbe essere anche demenza senile che non mi fa ricordare una beata ceppa, ma tant'è.

Le persone non commentano più. Se prima ti passava la voglia perché c'era da inserire il codice Captcha, adesso manco facciamo lo sforzo di cliccare Commenta. E questo perché il post viene condiviso sui canali social e si commenta da lì. Perché è più veloce, perché è più immediato e perché l'autore pare averlo lì, con la sua faccina del profilo per una chiaccherata più amichevole. Come se il blog, in qualche modo, mettesse un filtro, no? Tra una pagina seriosa e il profilo stesso dell'autore preferiamo di gran lunga il secondo per uno scambio più rapido e la certezza, vista la notifica che gli arriva, che il commento comunque è stato letto.

I blog li leggiamo, su questo non ci piove. Siamo solo diventati più pigri e più infingardi. Io per prima (per i motivi sopra).

I blog cambiano e a volte il cambiamento non segue il nostro pensiero, il nostro filo logico, la nostra esperienza. Quindi, spesso, vengono abbandonati. Magari un blog è nato come Blog Creativo e ora parla di Tecnologia. Magari un blog è nato come Mommy Blog e ora è un Food Blog. Magari un blog è nato per parlare di ricette poi ora parla solo di pannolini e biberon. Perché le persone cambiano e di conseguenza cambiano pure le loro pagine, A volte per questioni editoriali, altre volte per scelte di vita, altre volte perché in quel modo semplicemente non funziona. A volte si cambia totalmente strada e capita quando un blog non ti rappresenta e non ti rispecchia più. Quando ti va stretto.

A volte i blog chiudono. E questo è sempre un gran peccato.

Insomma, il blog andrebbe curato e sistemato minino due volte a settimana (un tempo lo facevo, porcadiquellamaiala)  invece se devo scrivere una qualunque minchiata o un papiro lungo tre pagine spesso preferisco la mia pagina FB perché l'approccio mi pare (ripeto: mi pare) sia più confidenziale.

Domande per voi:

-Avete notato anche voi questa transumanza dai blog ai social?
-Vi siete lasciate corrompere dalla bella faccina di Zucherberg e postate di più su FB?
-Curate e postate con costanza come anni fa o vi lasciate prendere dalla pigrizia?

Ovvio che rispondendo non si vince nulla, ma mi sentirei meno sola, ecco.

p.s. È chiaro che il titolo di questo post è una provocazione. Ergo: non fate come me.



lunedì 15 dicembre 2014

Un Natale diverso



Sono le cinque e mezzo di un 15 Dicembre e io sto sorseggiando un tè agrumato mentre guardo fiera sotto l'albero di Natale: oggi ho impacchettato con calma e cura quasi tutti i regali. In più, stamattina, ho sfornato quattro teglie di biscotti così belli e profumati che la mia casina sembrava una piccola pasticceria.
Voi direte: embè? e che c'è di strano?
C'è di strano che, negli ultimi diciamo...vent'anni?  il 15 Dicembre,io  non abbia mai potuto fare quello che avete letto. 
È la prima volta che nel periodo pre Natale  ho del tempo per la mia famiglia, per i  miei amici, per me stessa e per fare le cose che amo. E per godermelo, questo periodo. Senza essere fagocitata dall'isteria della gente, senza fare le corse, senza tornare a casa stanca morta con la pagliuzza nelle mutande. Non preoccupatevi per me, sto ancora lavorando, ma...diversamente diciamo. Ho un lavoro che mi permette un piccolo stipendio e tanto tempo da dedicare alla mia famiglia e alle mie passioni: infatti, tra le tante,  ho finito il terzo romanzo. È un Natale particolare questo qui, pieno di cose, di meraviglia, di novità. Riscopro la gioia di fare i regali handmade, di trovarmi con le più care amiche per farsi gli auguri più caldi davanti a un tè, fare biscotti al cioccolato insieme ad Alice con un  cd di Natale in sottofondo. Passeggiare tra i vicoli illuminati, sbirciare nelle vetrine vestite a festa, camminare mano nella mano  nelle vie del centro assaporando ogni passo, ogni metro. Senza fretta.  Riesco a godermi i preparativi con mamma e babbo che, negli ultimi anni, mi vedevano solo il 25. E che bellezza parlare con mamma di menù e offrirsi per fare un dolce strepitoso per il pranzo di Natale. Quello che per tutti viene vissuto come un bel periodo, di aspettativa, di preparazione, di impacchettamenti sotto le lucine colorate dell'albero, per la prima volta lo assaporo anche io e non mi sembra vero. È un Natale diverso. Più consapevole, più maturo, abbracciato e coccolato da una scelta  fatta un anno fa. Una scelta difficile, coraggiosa, ma che ho affrontato con grinta guardando avanti fiduciosa, nonostante i tempi, nel futuro. E ora, dopo tutto questo tempo, ho la conferma di aver fatto la cosa giusta. No, non solo per godermi il Natale, è ovvio. Per godermi tutto quello che c'è al mondo, che diamo così per scontato ma che scontato non lo è. Perché il tempo passa e non ce lo restituisce nessuno. E io il tempo lo voglio, lo pretendo, lo voglio vivere e prendere a morsi, gustarlo. Non sono mai stata una che si accontenta delle briciole. E questo tempo lo rivedo nei sorrisi sereni di Alice, negli abbracci stretti del Santo, nelle nostre passeggiate, nelle cene a un orario decente, in un dolce fatto a quattro mani.  Questo tempo preziosissimo lo rivedo in noi. Questo tempo che ora c'è, che ci alimenta, che ci sostiene e che ci unisce. E del quale non potevamo farne a meno.
È un Natale diverso.
È un Natale più bello.

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