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lunedì 9 marzo 2015

Al ristorante giapponese


                                                                                           (Foto: Vanity Fair )



Io ho delle amiche simpatiche, simpaticissime. Così simpatiche che mi hanno proposto una cena al ristorante giapponese. Che non è nemmeno un male se non fosse che io sto alla cucina orientale come Siffredi alla castità. Potete ben capire la mia gioia e il mio gaudio davanti a questa proposta, quindi me ne sono uscita con “Se sono in minoranza, ok, ci sto" sicura che la maggior parte delle donzelle si sarebbero mosse a compassione e mi avrebbero proposto una carbonara alla trattoria più vicina. Ebbene. Ero la sola a essere scettica e a remare contro vento. Figuriamoci, vada per il risto-giappo.
Devo ammettere che appena arrivata alcune cose mi sono piaciute subito: l'ambiente in generale, molto moderno con alcuni tocchi kitsch, i lampadari colorati, le luci soffuse e il trenino di piattini. Il trenino di piattini l'ho adorato, mi ha fatto tornare bambina. Praticamente è un giochino: c'è un nastro che serpeggia indisturbato e silenzioso per tutto il locale facendo dei ghirigori tra i tavoli e cosa c'è su questo nastro? Cibarie, su dei piattini coloratissimi che mi sarei ficcata in borsa da quanto erano bellini. “Insomma,” mi hanno spiegato “tu prendi dal nastro cosa vuoi e mangi.”
Semplice. Certo. Sapessi cosa c'è nel piatto sarebbe anche più facile.   Presa dalla novità e da un entusiasmo pari solo a un'estrazione dentale senza anestesia, mi aggiudico il posto vicino al nastro trasportatore. Le amiche simpatiche mi esortano a servirmi.
“Prendi. Prendi qualcosa, su.”
Io guardo passare sti piattini striminziti e mi sogno un piatto di lasagne. Riconosco qualcosa tipo il riso, il resto mi pare roba finta, ma decido di far finta di nulla.
In compenso l'amica Elisabetta sta arraffando quattro piattini alla volta e li distribuisce tipo rancio al grido di “Mangiate, tho! Magna questo! Al volo!” e lancia i piatti come se fossero frisbee, fa scorte come se dovesse partire per l'isola dei famosi e stare a digiuno tre mesi, e si arraffa pure il dolce per paura che qualcuno glielo sgraffigni. Io, diversamente nipponica, invece faccio fatica ad agguantare quello che mi passa sotto il naso. È una cosa che mi mette ansia perché devi essere veloce, scegliere in tre secondi sennò il piattino va via e sono cazzi tuoi, non lo rivedrai mai più perché quello al tavolo dopo te lo prende e te lo mangia e te rimarrai sempre con quella sensazione del treno che passa solo una volta nella vita e te lo sei fatto scappare. Senza contare che avevo l'istinto di prendere un pezzetto, assaggiarlo e se non mi piaceva, riporlo nel piattino e farlo scorrere per donarlo a quello più avanti. Che voglio dire, mi sembrerebbe anche più logico, no? Tipo ci dai un morso “Non mi piace”, lo rimetti lì e il piattino va a qualcun altro che magari apprezza di più. Peccato. Mi hanno detto che non si può fare. Pensavo che il nastro, onestamente, servisse a quello. Però, visto che mi passava tutto sotto il naso, aspiravo con le narici tipo Folletto per carpirne almeno gli odori, ma nulla, mi pareva tutto uguale. E niente, avevo un posto fighissimo ma molto impegnativo perché se è vero che arraffi la qualunque, dall'altra fai da cameriere e devi sta attenta alle prenotazioni.

“Simo, passami la cipolla fritta, lesta!”
“Eh?”
“La cipolla fritta!Corri sennò il piattino va via!”
“E qual è la cipolla fritta? Cazzo, dimmi almeno il colore del piattino!”
“Verde!”
“Tho, eccoti la cipolla. È buona?”
“È un totano.”

“Corri! La zuppetta!”
“Eh?”
“La zuppettaaaa!! prendila, veloce!”
“E qual èèèèè????”
“Quella nera e dorata col coperchio!”
“Ah. Il Sacro Graal?”

“Simo, prendimi gli spaghetti di soia!”
“Zitta, non mi dire nulla. Forse stavolta ce la faccio. Sono quelli che sembrano un ammasso di peli e capelli trovati dietro il cesto della biancheria di una bettola che spacciano per albergo?”
“Mi è passata la fame.”

“Prendimi il sushi col tonno!”
“Tho!”
“Rimettilo là, questo è salmone!”
“Non sono capitan Findus, mangiati il branzino e chetati!”

“Prendimi il piattino rosso!”
“A me verde!”
“Blu!”
“Blu e rosso!”
“Giallo!”
“Giallo, verde e blu!”
Mi sembrava di giocare a Strega comanda color. Paro paro. Ho lanciato dei piatti a caso, dato della verdura a chi mi chiedeva pesce e fritto a chi mi chiedeva lesso.
E si sono pure lamentate. Non capisco perché. Cioè, manco contente di come distribuisco il rancio. E ho capito che se vuoi stare lì devi avere dei requisiti ben precisi. Devi essere: veloce, sicura, riconoscere una balena da un tacchino, una roba fritta da una in umido, non daltonica, con un recondito sogno di essere una cameriera, abbastanza sveglia per rubare da sotto il naso di quello davanti il piatto che ti interessa, e stare al tuo posto senza importunare i vicini di tavolo con domande tipo “È buono? Di cosa sa? Se non vomita nei prossimi dieci minuti lo prendo anche io.”
Non solo: mi dicono che dovrei provare a mangiare con le bacchette. Ste cose nere  e lunghe, buone solo per tenerti la crocchia di capelli al posto della matita. Comunque ci provo e dopo diciotto tentativi andati a vuoto, l'istinto sarebbe di piantargliele nel petto tipo palo di frassino con i vampiri. L'amica Claudia, vedendomi in prossimità di una crisi di nervi mi allunga una forchetta "Tieni, minchia che pena che mi fai." Ho visto la luce in fondo al tunnel, giuro.
Devo dire però che ho mangiato. Sì sì. Dopo aver sezionato e analizzato ogni piatto manco fossi una dei Ris. Con l'amica mia Manuela (l'unica che dopo l'entusiasmo iniziale ha cominciato a rimpiangere un'amatriciana o una pizza quattro stagioni) pescavamo un piattino a caso e, posizionato sotto i nostri occhi, ci ponevamo dei quesiti.
“Secondo te cosa è?”
“Mah...pare pesce.”
“Dici? Annusa un po'.”
Sniiiiff “Mmh...non so. Vivisezioniamolo.”
“Accendi il registratore: oggi, 6 Marzo, ore 21.30, mi appresto ad effettuare incisione a Y sul corpo della vittima. Di primo acchito pare una seppia, ma potrebbe essere un crotalo. Ci accingiamo all'assaggio. Prima la collega.”
“Gnam... sì, è pesce in salsa barbecue.”
“Positivo. È pesce il salsa barbecue.”
“Con pezzetti di zucca.”
“Altri elementi all'indagine: con pezzetti di zucca.”
L'amica Anna, l'esperta, interrompe questa analisi da far invidia a Kay Scarpetta con un: “Cretine, è pollo con carote in salsa di soia.”
Non c'abbiamo capito un cazzo. Papille gustative andate, completamente 'mbriache. Nemmeno il medico legale possiamo fa'. Mai una gioia 'orcomondo.
Però abbiamo fatto lo stesso con la maggior parte dei piatti, usando le bacchette per spostare letti di alghe, scambiando mille ingredienti tra loro e imboccandoci a occhi chiusi tipo penitenza. Ho assaggiato più o meno con entusiasmo quasi tutto, ma alla fine ho mangiato: riso con verdurine, pesce fritto, una cima di broccolo scondita per la quale mi hanno preso per il culo anche i ricoverati degli ospedali di tutta Italia, tre pezzi in croce di finocchio crudo (tipico appunto della cucina giapponese) e due fette di ananas alla quale mi sono attaccata con una voracità che sembrava non mangiassi da tre mesi. Praticamente un menù come se fossi stata a casa. Che bella esperienza.
Da ripetere senz'altro.
Sì.
Come no.
Certamente.
Si vede che sono convinta?






martedì 3 marzo 2015

Ci sono giorni in cui


(Foto https://www.facciabuco.com)



Ci sono giorni in cui mi alzo la mattina, mi guardo allo specchio e mi vedo figa. No, aspe': dopo colazione, un po' di trucco e parrucco. Quindi dicevo: mi vedo figa. Ammiro i miei capelli che alla soglia dei 42 anni non hanno bisogno di tinte, la pelle tirata e senza rughe, la bocca turgida e un naso niente male. E ci sono giorni in cui, nonostante un restauro durato quanto l'era glaciale, io mi vedo un cesso a pedali. Quei quattro capelli bianchi in croce che tengo mi sembra che luccichino e splendano di luce propria e mi sento a un passo da sembrare Crudelia de Mon. Vedo distintamente le rughe intorno agli occhi soprattutto se rido (e subito li sgrano sorpresa alla 'Porcatroia!' per vederle scomparire), la bocca mi sembra vuota e sgonfia come la borsa dell'acqua calda che giace in garage e il naso mi ricorda Bartali “L'è tutto da rifare!”

Ci sono giorni in cui esco di casa truccata, ben pettinata, con tacco 12 e un abitino perfetto per un red carpet o una prima a La Scala, solo per andare dalla fruttivendola o a prendere il giornale. Così, perché mi va. E ci sono giorni in cui gli appuntamenti richiederebbero un abbigliamento adeguato (visite mediche, incontri di lavoro, feste e cerimonie) in cui avrei voglia di presentarmi in pigiama, ma opto per una tuta. Solo perché il pigiama è troppo leggero. E “No, gli stivali di gomma con i quali vai nell'orto, non vanno bene.” Ovvio che in quel frangente in cui tu'nonna con la sciatica in confronto a te sembrerebbe la Bundchen, tu incontri la qualunque.

Ci sono giorni in cui una battuta su di me mi fa scompisciare dalle risate tanto da metterti la fascia come Miglior amico dell'anno. Davvero, sei forte. Ti voglio bene un casino.
E ci sono giorni in cui la stessa identica battuta te la farei ingoiare aiutandomi con una vanga con la quale ti percuoterei per oltre otto ore consecutive fino a che non stramazzi a terra. Morto, possibilmente.

Ci sono giorni in cui agguanto la motosega e mi depilo con dovizia. Estirpo il pelo alla radice, lo minaccio e mi prometto che mai più e mai poi, le mie gambe assumeranno l'aspetto di una foresta di mangrovie. E ci sono giorni in cui, anche se non mettessi le calze, potrei benissimo uscire con i miei pantaloni a frange naturali e mi sentirei a mio agio comunque.

Ci sono giorni in cui mi spalmo la crema anticellulite, antirughe, antietà, antiritenzioneidrica, antinestetismi, antitutto con una convinzione tale che già dopo la prima spalmata mi sento asciutta, liscia e levigata come il culetto di un bebè dopo il bagnetto. E ci sono giorni in cui, aprendo lo sportello del bagno, mi cascano tra le mani diversi tubetti e barattoli scaduti che io guardo borbottando “E questa cosa è? Crema che fa sparire la cellulite in tre settimane? Ma che cazzata!” e via, la frullo dalla finestra.

Ci sono giorni che vado in palestra con una carica pazzesca, sentendomi Jane Fonda nelle videocassette anni '80 di ginnastica tonificante. Una bomba. Tonica. Scolpita. Soda. In una parola: figa. E pronta ad affrontare 59484 ore di allenamenti estenuanti. Anzi, rinnovo pure l'abbonamento per i prossimi vent'anni.   E ci sono giorni che al solo pensiero di recarmi in palestra mi provoca un attacco di depressione. Figuriamoci alzare un alluce o far roteare un mignolo. Staccarmi dal divano e dal plaid potrebbe provocare un danno permanente al mio stato psicofisico. Che, voglio dire, è già molto compromesso.

Ci sono giorni in cui mi vedo magra. Semplicemente. Ventre piatto. Culo giusto. Cosce a posto. Non ho niente di cui lamentarmi. Avanti così, bella de mamma.
E ci sono giorni in cui, mangiando la focaccia con la salsiccia, bofonchio “Mmh...sì, dovrei mettermi a dieta. Gua', guarda che rotolini.” E allora vedo i maniglioni antipanico, i cuscinetti adiposi, la pelle a buccia d'arancia, le braccia gonfie, la pappagorcia all'Enrico VIII e i polpacci alla Rummenigge.

Ci sono giorni in cui un abito o un paio di pantaloni mi entrano al volo. Questi indumenti mi scivolano addosso che è na bellezza. Fatti su misura. Valorizzano il mio corpo. La zip sdrucciola via che sembra pagata e i pantaloni dio come si chiudono bene. Va là. In formissima la Simo.
E ci sono giorni in cui gli stessi indumenti pensi si siano ristretti nottetempo perché non ti entrano manco per il cazzo. Manco se preghi in sanscrito. Manco se ti affidi a una sarta. La zip non sdrucciola, ma caraccolla. Si inceppa. Si accascia e non se move. Ferma lì la bastarda, se la tiri indietro ti agguanta la ciccia facendoti vedere le stelle, se provi a tirarla avanti muori asfissiata dal trattenere troppo il respiro. E se ci riesci, a tirarla tutta su dico, cerca di non muoverti troppo che potresti sembrare l'incredibile Hulk quando diventa verde: strappi qualsiasi cosa.

Ci sono giorni in cui semplicemente siamo in preda al ciclo, agli ormoni, agli umori dettati da chi ci circonda, a una fame atavica, a un sana malinconia mista scazzo o una sacrosanta infingardia mista a pigrizia.
E ci sono giorni in cui basta una parola, una telefonata, un complimento, un sogno erotico, un buon libro, un bel film, una frase carina, una aggrovigliata lotta tra le lenzuola o semplicemente il fatto che ci sia il sole e che sia quasi primavera, o che sia giorno di stipendio o l'aver visto una borsa di Prada scontata del 70% , che tutto ci pare più bello, roseo, alla nostra portata. E in quel frangente saltelliamo felici che manco Bambi nel bosco.
Prima che gli ammazzino la mamma.
Ecco, appunto.




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