mercoledì 22 giugno 2022
Le mie estati da bambina
mercoledì 18 marzo 2020
E POI VENNE IL GIORNO
E poi la notte.
Dopo pomeriggi sfacciati, con un sole prepotente che non possiamo godere, arriva il momento peggiore. I pensieri si incagliano prima che riusciamo chiudere gli occhi, ci rigiriamo nel letto; un sonno agitato, sogni brutti, alle cinque già svegli a fissare la finestra e domandarci se oggi ci sarà il sole. La luce ci aiuta a vedere la situazione con la distanza giusta, con positività, come se tutto quel chiarore ci aiutasse a fare luce sulla faccenda. Una giornata di sole è bella fuori e bella dentro, ci aiuta un po' a passare le giornate tutte uguali alle quali ci arrendiamo.
Non riusciamo a lavorare da casa con la giusta concentrazione, a leggere, a scrivere, a giocare coi nostri figli con la spensieratezza di sempre, a porre l'attenzione su qualsiasi cosa che non siano automatismi: colazione, apri le finestre, fai i letti, ragazzi studiate, facciamo un gioco? cucina a pranzo, a cena, cucina sempre, tieni impegnate quelle mani per non impazzire, riordina la cucina, pulisci il bagno, ritira i panni. Così, da giorni, ma il pensiero è sempre lì. Ai tuoi figli, ai tuoi genitori, al tuo partner comunque al lavoro, all'amica, a chi hai visto l'ultima volta. E sì, hai contato pure i giorni da quel giorno, non si sa mai.
Le telefonate ai tuoi cari sono sempre le stesse. "Che fai?" "Sto a casa" "Bene" Sempre soliti discorsi, si casca lì, non se ne esce. E poi devi uscire per la spesa, ci sono file ovunque, guanti, mascherine, scene apocalittiche, abbiamo smesso di scherzarci da un pezzo, da quando la situazione si è fatta seria, ma ci guardiamo tutti male, ogni persona che incontriamo, ogni paio d'occhi sopra quella mascherina potrebbe essere il nemico.
Tornati a casa ci spogliamo, ci disinfettiamo, quello non lo toccare, quello nemmeno, aspetta che lo pulisco, facciamo tutto quello che c'è da fare pur sapendo che è una roulette russa, se dice di toccarti ti tocca, anche con tutte le precauzioni. Allora preghi, pure te che non lo fai mai, lo fai per i tuoi figli, per tuo marito, per tua moglie, per i tuoi genitori e per tutti quelli che sono là fuori, nonostante tutto. In quel momento ti ridimensioni, ti senti pure un po' stronzo a lamentarti di queste giornate tutte uguali, con la tua piccola e sciocca paura, quando loro sono lì, a lavorare per permetterti di mangiare, di curarti, di proteggerti. Sono lì, in trincea, a toccare con mano, a veder la gente morire. Loro sì che hanno paura, quella vera, quella che ti toglie il respiro, che marchia a fuoco il volto, che lascia i segni sul cuore e nell'anima. Ma tutti ne usciremo segnati, anche chi dice che non ha paura. Non credetegli. Tutti ce l'hanno. Anche chi ride, chi sbeffeggia, chi ironizza... in fondo è una difesa pure quella. Com'è che si dice? Rido per non piangere. Forse è così. Ma non riusciamo nemmeno a fare quello, sarebbe un pianto asciutto, secco, di quei pianti isterici e non liberatori. Riusciamo a farlo solo per commozione, con le poche belle notizie: un bambino che nasce in questi giorni, un parente guarito, i flash mob sui terrazzi, per le parole di un medico che cerca di tranquillizzarci. Per un inno d'Italia cantato a una finestra.
Il momento peggiore è la sera.
E poi la notte.
Ma, come questo periodo, passerà. Non durerà per sempre.
E risplenderà il sole su un nuovo giorno.
mercoledì 4 gennaio 2012
LE STORIE NEL VENTO
C'è una storia che veniva raccontata spesso in paese.Ora non più, è scemata un po'.Ma è una storia di quelle che le vecchie del paese, quando torni ad abitare in quelle strette vie, ci tengono a farti sapere.E' una storia bella, triste, struggente e maledettamente vera.
Molti anni fa, in quelle viuzze a pochi chilometri dalla città, abitava Marco. Un bel ragazzo dai capelli che davano sul rossiccio, con una spruzzata di lentiggini sul naso e spalle squadrate come un giocatore di rugby.
Insieme a lui era sovente vederci Maria Chiara, una ragazza gracile, ancora acerba nei tratti, ma con un bel caratterino, che non rispecchiava assolutamente l'immagine da pulcino spaurito che aveva.
Il loro era un grandissimo amore. Quegli amori giovani, certo, ma già profondi. Quegli amori dove la domenica lei si fermava a pranzo a casa di lui, con la sua mamma, il suo babbo e la sorella.
Quegli amori da 'fidanzati in casa'. Quegli amori che t'immagini nel giro di pochi anni veder sbocciare in una famiglia, con magari una coppia di gemelli nel doppio passeggino.
Un grande amore. Maria Chiara per Marco era la vita, la risposta a tutte le sue domande, la sua casa, la sua aria, il suo cuore.
Marco, per Maria Chiara, era ossigeno, era passione, era tutto quello che aveva sempre desiderato. Fino a un certo punto. Fino al punto in cui il destino non si mette a sceckerare le carte, fino al punto che il destino decide che questa storia è troppo bella per essere vissuta davvero. Fino al punto in cui Maria Chiara ha detto basta, pronunciando quelle parole che nessun innamorato vorrebbe sentire mai “Non ti amo più”
Marco, ovviamente si sentì morire, si disperò, non si capacitava di tutto questo, la sua Maria Chiara non poteva fargli così del male. E tutto questo poteva passare inosservato, essere vissuto nelle candide mura domestiche, essere metabolizzato con pianti di dolore camuffati da sorrisi cordiali. Invece no. La gente parlava, il paese partecipò a questa rottura perché Marco era palesemente sconvolto. Uscì pazzo, non si riconosceva più, la famiglia era preoccupata. Fino a che un giorno, dove il destino decise di allungare una mano quasi pentito di aver tirato un brutto scherzo,Marco trovò rifugio nella parrocchia del paese e in Don Luciano. In quel luogo di culto e di preghiera, Marco sentì di essere compreso e di non essere il solo a cercare conforto in quelle mura. A breve, le sue visite in parrocchia divennero più frequenti e le lunghe chiaccherate con Don Luciano, lo fecero rinascere. La famiglia, da una parte era felice di vederlo di nuovo sereno, dall'altra lo spronavano con frasi fatte e scontate “Sei giovane. Ti passerà. Troverai altre ragazze che ti faranno battere il cuore”
Così furono sorpresi quando il ragazzo pronunciò “Non amerò mai nessuna donna come Maria Chiara. E se non posso avere lei, non avrò nessun'altra”
Iniziò il suo cammino e il suo percorso e dopo poco tempo ci si rivolgeva a lui come Don Marco.
Era bravo Don Marco, un parroco comprensivo, di cuore, uno che aveva fatto quella scelta nel dolore. Ma si sa, il paese è piccolo e la gente mormora. Additare un giovane prete e parlarsi nelle orecchie a ogni messa per poi sospirare come se si trattasse di un bel film romantico, non si addiceva certo a lui. Così preferì allontanarsi dal paese, allontanarsi da qualsiasi possibilità di vedere Maria Chiara uscire dal panettiere, allontanarsi da tutto ciò che gli ricordava lei e allontanarsi da quelle comari, che anche con le più buone intenzioni, lo facevano sentire inadeguato.
E Don Marco diventò il parroco di un piccolo paese arroccato sulle colline. E' un buon prete, dicono, e un uomo adesso. La nuova comunità è felice di averlo tra loro, poche anime si stringono la domenica su quelle panche, un luogo tranquillo, lontano dalle chiacchere. E un posto romantico, da gita domenicale. Don Marco si trova bene, celebra messa con la sua bella voce da ragazzone, battezza infanti con le sue mani forti e accoglie i fedeli con il sorriso sulle labbra. Come è successo quel giorno con un uomo, quello che gli si è presentato davanti dicendo “Don Marco, avremmo scelto questa chiesa per celebrare il nostro matrimonio. La mia futura moglie è rimasta incantata dalla bellezza del luogo. Se lei è d'accordo. La mia fidanzata sarà qui a momenti”
E, dopo pochi minuti, la vide.
Maria Chiara. In tutti quegli anni era cambiata, era più bella, più in carne, più donna. Ma aveva negli occhi sempre quella luce sbarazzina di quando erano ragazzi. Lei, lì per lì, non lo riconobbe, ma l'incertezza durò pochi istanti, il tempo di farsi chiudere la sua mano in quella del prete.
E Don Marco disse sì. Li avrebbe sposati. E avrebbe avuto la facoltà di dare a un altro uomo una cosa preziosa che un tempo gli apparteneva. Di benedire un'unione e cedere la cosa più bella che gli fosse capitata in vita sua. La donna per la quale lui adesso si trovava lì, dietro quell'altare, a confortare, rassicurare e infondere speranze e amore alle poche anime di quel piccolo paese arroccato sulla collina.
Le nozze furono celebrate in un afoso sabato pomeriggio di Luglio.
E la gente si commosse, e parlò con sospiri e deboli sorrisi e tramandò questa storia fino ai giorni nostri incrementando ogni volta con particolari personali, come tutte le storie passate di bocca in bocca. Io ho cercato di raccontarla in modo semplice, senza farmi influenzare e cercando di cogliere e lasciare intatto il vero protagonista di questa storia: l'amore in ogni sua forma.
Ecco, io stamani forse ho anche la febbre. Ma sto post mi è uscito così.
Voi avete belle storie che si tramandano da famiglia e famiglia?
Avete voglia di raccontarmele?
mercoledì 21 settembre 2011
L'AQUILONE
Dalla mia finestra vedo un aquilone, è legato al dito di un bambino. Lui corre e l’aquilone volteggia libero nell’aria. A volte precipita, ma non tocca mai terra. Si rialza e riprende il volo. Grazie a quella manina che lo strattona e lo guida contemporaneamente. Mi immagino di essere io quell’aquilone. Vorrei avere la forza di rialzarmi quando sto per toccare il fondo. Vorrei danzare con il vento e sentirmi guidata da una mano che mi dà vita.Il bambino sembra divertirsi e la sua espressione mi strappa un sorriso.
Allungo una mano a toccare il vetro e mi accorgo che sto tremando. Non è il freddo, ha detto il medico che è l’età. Attraversando la mia immagine riflessa, guardo l’esterno della mia nuova casa. Non l’ho scelta, me l’hai imposta. Mi dicesti: “Vedrai mamma , qui ti troverai bene.” Ti sforzavi di sorridere, ma la tua mano premeva forte sulla mia spalla. Avrei voluto correrti dietro e dirti: “ Non lasciarmi, io senza te non ce la faccio.” Ma le gambe non mi hanno retto, impossibile far muovere due tronchi senza linfa. Lo so che a volte non è stato facile, a volte è stato perfino difficile parlare, confidarsi. Non sono mai riuscita a entrare nei tuoi pensieri, infrangere i tuoi lunghi silenzi, quelli che ora mi avvolgono e che mi fanno sentire vuota. Vuota di te, di mia figlia.Penso sia la cosa più difficile da accettare: averti dato vita e accorgermi che mi stai lasciando in balìa della mia, come se non ci legasse niente, lasciata qui a marcire come se fossi un abito smesso, troppo vecchio anche per essere rammendato.
Hanno bussato alla porta. A malapena riesco a sentire l’infermiera chiamarmi per nome. Dice che c’è una visita per me. Dice che ci sei tu. E’ passato tanto di quel tempo che temo di non riconoscerti. Non ho la forza di voltarmi e continuo a tenere gli occhi fissi alla finestra. Il vento ha cessato di soffiare, l’aquilone ha toccato terra e non si rialza. Il bambino lo scuote, lo agita, ma è troppo tardi. Dovevi godertelo bel bambino, fino a che c’era anche un solo debole soffio di vento a dargli vita.
Ora che non serve più lo getta in un angolo e se ne va. Qualcuno lo chiama e lo vedo allontanarsi di schiena e chiudersi una porta alle spalle.
So che state parlando di me, sento che bisbigli il mio nome con noncuranza.Parlate di terapie, medicine velenose che ingurgito da mattina a sera. Ma non c’è una cura per la mia malattia, non hanno ancora inventato una cura per guarire dalla vecchiaia, dalla solitudine. Sono stanca, stanca di non avere un buon motivo per combattere, stanca di essere un peso, stanca di questo corpo raggrinzito e di queste mani che non riescono nemmeno più a tenere un cucchiaio, a fare una carezza. Ma poi una carezza a chi? Sono mesi che non mi tocchi più, ti tieni a distanza come se fossi un animale randagio.
Chiudo gli occhi e mi accorgo che mormori il mio nome, ma io non ti sento già più. Sta suonando un campanello, ci sono voci allarmate intorno a me. Mi sto allontanando, sto toccando il fondo, figlia mia.
Non ho fatto in tempo a sentirti dire “Mi dispiace, mamma”. E non ho fatto in tempo a vederti allontanare di schiena e chiuderti la porta alle spalle.
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Con questo racconto partecipo (fuori concorso) al Candy-Contest di Antonella.Perché fuori concorso? Perché sono una delle giudichesse (giudichesse?Nel mio caso una GiudiCESSA). Eccolo qua:
Basta farsi ispirare da uno dei 5 titoli dei libri esposti e tirarci fuori un post. Questo è il mio piccolo contributo, la parola 'aquiloni' mi ha ricordato un vecchio racconto di quando ero gggggiovane, quindi anche se non è in perfetto Simo style, ci sono affezionata.
E poi oh!oggi va così.
p.s. lasciatevi ispirare ;-)

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