Casa mia era fresca. Una vecchia casa, in fondo a una corta lunga e stretta dove era impossibile giocare a pallone. Le persiane verdi di cui alzavo personalmente la finestrella per infilare la stecca sempre nel solito buchino. Né troppo bassa, né troppo alta. Il ronzio del ventilatore nelle giornate d'agosto, un rumore sordo, quasi ipnotico. L'acqua gassata fatta con le bustine, il cocomero a cui mancava 'il tassello', i pomodori ancora caldi dal sole presi dalle mani di nonno. L'orto tirato su con le canne e innaffiato la sera insieme alle nostre ciabatte. Mamma, fasciata nella sua vestaglietta, chiudeva tutto, 'entra l'afa'; la tenda a fiori sventolava appena, 'è vento caldo', diceva babbo tra una sigaretta e l'altra. Il giornalista del telegiornale ci trovava lì, al 'tocco' preciso, al tavolo rotondo della cucina; le gambe graffiate dalle macchinine di mio fratello, le sedie vecchie che rizzavano il pelo come gatti arrabbiati. La paglia, che di intrecciato ormai non aveva più nulla, mi bucava le gambe. A volte c'erano bei cuscini, mamma li cuciva da sola con gli avanzi di stoffa e quella cucina dai pensili di formica azzurri, sembrava più bella. Dopo pranzo la moka borbottava sul fuoco, qualcuno si affacciava alla porta. Il profumo del caffè invitata i vicini come il suono del pifferaio magico. Lo prendevano lì, a volte babbo faceva posto inventandosi una scusa per uscire. Il salotto non veniva preso in considerazione. I centrini messi sulla testata del divano non hanno mai conosciuto capelli e profumi altrui. Il salotto era la stanza buona, quella delle foto a Natale, quella dove accogliere qualcuno quando la pila dei piatti giaceva ancora nell'acquaio. E poi a sdraiarsi. Zitti zitti e chiudi tutto. Dormite. Ma non abbiamo sonno. È uguale, state buoni. A merenda vi do il gelato. Ore infinite, minuti scanditi dal frinire delle cicale, il sudore sul collo, la noia che ci divorava. Le quattro. Alle quattro finiva tutto. Le quattro erano il lasciapassare anche per fare il bagno in mare. E poi mamma che si alza lamentandosi del caldo, il suo ciabattare giù un cucina, noi a piedi scalzi sul marmo freddo. Mettetevi le scarpe e state all'ombra. Libertà. Il supertele rosso, lasciato al sole, era sempre un po' più sgonfio, le lucertole si rintanavano sotto i vasi, noi ad abbeverarsi alla fontanella di nonna. La sera arrivava in fretta, spazzava via un po' di calura. La terra innaffiata da nonno sapeva di buono. I pisellini freschi sgusciati e mangiati vicino alla rete, il pozzo che fu chiuso dopo la tragedia di Alfredino, i pomodori sui quali nonno metteva direttamente il sale. 'In picchiata', diceva, e me ne offriva uno. Il 'si mangia!' di mamma urlato dalla porta, la panzanella con le cipolle, le acciughe marinate, il fiasco del vino, il tg delle venti. Lasciavamo i grandi a tavola e riscappavamo fuori a giocare in strada. Poche macchine, poca vita. Un muretto dal quale fare i salti, un marciapiede su cui sfidarsi al gioco dei tappi, prima di far spazio a mia madre, a miei zii, al vicinato, armati di seggioline colorate. In casa le televisioni trasmettevano per nessuno, un leggero sottofondo, una compagnia discreta. Pettegolezzi, segreti, chiacchiere da bar, scivolavano sui muri incrostati, strisciavano sull'asfalto ancora caldo, impregnavano giornate tutte uguali. Hai saputo della Maria? No, cosa? Ogni tanto spuntava un gelato, ma solo nei giorni di festa. Mia madre chiudeva la seggiolina, il mio babbo la guardava già con un piede in casa, i calzoni troppo larghi, la canotta a coste. Io e mio fratello guardavamo gli altri bambini. A domani. A domani, rispondevano.
Si chiudevano sedie, tende, persiane; si spegnevano luci, lampioni e televisioni.
Entravamo in casa scorgendo qualche scarafaggio e prendevamo le scale di marmo. Fila a letto, forse si dorme. Casa mia era fresca.
che bella descrizione! mi è sembrato quasi di rivivere le sensazioni avvertite da bambina ...che bello! grazie!
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